IV

gennaio 28, 2011 § 1 Commento

Voglio andare via.

Non tanto perchè ci siano chissà quali problemi o problematiche di fondo. Semplicemente ho voglia di andare via, cambiare aria, fare cose nuove, farmi quella famigerata esperienza osannata da molti ma di cui non esiste nessun tutorial esemplificativo su Youtube. Non ci sono da indagare psicologicamente le motivazioni, non ce n’è bisogno, è tutto così chiaro e limpido: questa è solo la semplice voglia di andare avanti. Un po’ come nei videogiochi anni ’90, quelli col Boss di fine livello, battuto quello, superato l’ostacolo, passi al livello successivo. Ecco, il prendere e cambiare aria sarebbe il mio Boss di fine livello. Non ci sono situazioni familiari drammatiche da cui fuggire, non ci sono grandi delusioni amorose da allontanare, non ci sono rabbie o insicurezze da nascondere. C’è solo la voglia di trovare la strada. Di trovarla, costruirla, magari sceglierla o modificarla o cambiarla. Un percorso naturale, che ti porta da una parte all’altra del ponte, che ti fa attraversare il fiume come se nulla fosse.

Con i miei genitori ho sempre avuto un rapporto tranquillo, informale, spensierato, educato. Normale, com’è giusto che sia. Niente follie, odio o disprezzo. Niente litigi futili, punizioni o scorrettezze. Niente frasi ambigue, incomprensioni. Un rapporto semplice, spontaneo, spartano quanto il loro matrimonio. Educato da non dar nell’occhio. Quindi tutto questo non sarebbe per scappare da loro, non hanno colpe o motivi per cui preoccuparsi. Ho semplicemente bisogno di iniziare ad avere la mia vita, non protetta, non cullata, non osservata. Ed è logico che tutto questo non possa continuare ad essere sotto lo stesso tetto. Non ho nemmeno la smania di scappare dalla provincia per andarmene in città. Non ho mai avuto bisogno di opportunità, ho sempre trovato soluzioni alle mie necessità, senza aspettare che qualcuno o qualcosa mi servissero il piatto pronto (i piatti d’argento sono in soffitta assieme agli altri inutili regali di nozze dei miei). Ho sempre cercato di arrangiarmi, di usare i mezzi a mia disposizione per risolvere ogni problema o capriccio o voglia.

Ho sinceramente e visceralmente paura di tante cose, due di queste centrano qualcosina con questo discorso. Ho paura di chi non se ne va da casa, ma più che paura provo una sensazione di dubbio misto dispiacere. Per loro, per le possibilità che non hanno avuto o non hanno voluto cogliere. Pensare al mio futuro, tra 3/5/7 anni, ancora in questa stanza con l’arredamento casuale e i poster trash ai muri, fanno sentire il mio pistolino e il mio cervello dentro una tagliola. Castrato nella mia volontà. Ma ho anche paura di quelli che se ne vanno da casa per schizzo, per prendersi la tanto agognata libertà. Libertà, libertà, libertà… Ho cercato su Wiki e alla voce libertà non ho trovato sesso, droga e rock’n’roll. Se ne vanno via per gioco, come se fosse una cosa da nulla, così da avere sempre a disposizione un letto su cui scopare e un frigorifero da riempire con roba da lasciar marcire. Al massimo, se poi dovesse andar così male, tipo trovarsi il bagno allagato o il condizionatore bruciato, si può sempre tornare a casa, quella originale, non il fac-simile da telefilm americano.

La libertà non credo proprio che sia fare tutto ciò che ci pare, credo piuttosto che la libertà sia avere la consapevolezza di ciò che si sta facendo. Affermazione abbastanza banale, scontata e fabiovolana. Perdo i colpi. Comunque il vivere giorno per giorno è attuabile solo quando abiti in un bilocale universitario di periferia in condizioni igieniche fatiscenti assieme a due coinquilini ciellini che ti criticano se non ti raccogli in un momento di preghiera prima di mangiare il take way preso dal turco sotto casa. Capisci bene che in condizioni simili cerchi di narcotizzarti l’anima (e il sistema immunitario) e finisci per accontentarti di vivere la giornata, fregandotene dei rischi, dei problemi, di pensare al senso dell’essere liberi.

Non ti meriti la libertà se non sai che fartene.

III – Come se fosse una lettera

gennaio 3, 2011 § Lascia un commento

Caro ***,

vorrei dirti che hai sbagliato tutto, che non è assolutamente così. Vorrei essere in grado di spiegarti che Dairago non è questa, non è solo Palio o qualche stupido disegnino sul muro. E non tutti ci accontentiamo di ciò che abbiamo. Vorrei dirti che ancora si riescono a vedere le nuvole, malgrado le nubi. Vorrei vedere le montagne, come quella volta, dalla camera dei nostri genitori. Hanno tagliato gli alberi ma di notte restano le stelle. A guardarci.
Vorrei dirti che è finita, che è tutto cambiato. Che è tutto migliorato. Vorrei dirti che è tutto colorato. Che è bello. Ma è difficile anche solo scriverlo. Vorrei dirti che siamo tanti, vorrei dirti che siamo ancora belli. Vorrei dirti che siamo grandi, forti, determinati. Vorrei dirti che le cose cambiano. Dirti che il caldo ci scurisce ancora la faccia, ci fa vedere le pozzanghere in lontananza alle tre del pomeriggio. E poi sentire la puzza di asfalto e pioggia quando sta per arrivare la tempesta. E si salvi chi può quando diluvierà.
L’acqua ci laverà via, farà pulizia. Finalmente. Distruggerà case e chiese. Ma ci salveremo, stai tranquillo. Saremo moderni Noè in mezzo a unicorni dimenticati. E poi scenderà l’arcobaleno, cercheremo la pentola d’oro e con tutti i soldi compreremo un trattore. Anzi anche un rastrello. Così pianteremo girasoli per la città morta. Cresceranno. Sbocceranno. E ci gireremo assieme a loro, cercando il sole perchè ci siamo rotti le palle del freddo.
Vorrei dirti che questo è quello che ci meritiamo, nonostante tutto. Ma mi sentirei una merda perchè non è questo ciò che siamo. Lo diceva anche Leo. Ci siamo colorati le mani e poi la faccia. Tranquillo, sono stato attento, sono stato delicato, non ti ho sporcato i capelli.
Vorrei dirti che le campane si sentono in lontananza e che non riesci più a capire di che colore sia la notte. Vorrei dirti che a ventanni la vita è ancora lunga, che della vita non sai un cazzo. Le solite cose. Che trovarsi in un paese di 5000 abitanti non fa di te il re del mondo ma neanche l’ultimo dei pirla. Potrei anche dirti che sotto sotto non è male starci ma scoppieremmo a ridere entrambi appena finito di dirlo. Ma tu per primo.

Hai ventanni e hai paura. La solita storia. Paura dei limiti, di sbatterci la faccia e che questa non è la City. Scappi da quelli che sognano Londra e poi escono in Corso Italia. Scappi da quelli che volevano fare la rivoluzione e ora si fanno agli happy hour. Scappi da un paese per vecchi. Ma senza serial killer di professione ad animare la festa. Hai ventanni e hai paura. Sempre la solita storia. Di non avere possibilità, restando qui, di non avere nessun futuro, restando qui. Di non aver mattoni per costruire ponti resistenti che portino dall’altra parte del fiume. Stai sulla riva, zitto e fermo. E aspetti. Aspettare. Chi? Cosa?

Puoi prendere e andare. Non guardarti indietro, scemo. Non lasci nulla di valore. Qualche risata, qualche ricordo. L’erba verde di quei giri in bicicletta. I boschi che tanto li hanno abbandonati, il venire schedati per ciò che dici o ciò che fai da quelli del bar. I postini che sono tuoi amici e ti salutano sempre quando spedisci qualcosa. Le bandierine appese ai pali che ogni giorno che passa sono sempre meno colorate. Quelli che ti dicevano che non centravi un cazzo, quelli che ti vedevano fuori posto tra di loro. Quelli che ti chiamano di notte. E non rispondi. Mai. Ma spero che a questa lettera risponderai. O che almeno tu faccia finta.

tuo,
***

II – Liberazione

gennaio 1, 2011 § Lascia un commento

Mi sono accorto di avere ventanni quando mi sono reso conto che la vita è davvero difficile, che le possibilità non piovono dal cielo ma vanno costruite, vanno sudate, vanno possedute. Mi sono accorto di avere ventanni quando ho realizzato che non è così semplice baciare la ragazza che ti interessa. Non è come quando ne avevi 15, purtroppo. Ci siamo accorti di aver ventanni mentre stavano per finire, mentre ci stavano scivolando via come le gocce di pioggia sulla borsa in ecopelle.

Forse dovremmo iniziare a sentirci di più, oppure smettere per sempre. Ho sempre odiato le vie di mezzo, non mi hanno mai portato a nulla. Ho ascoltato le cose che ci si ripete sempre, di sfruttare l’impeto, di vivere il momento. Ma il carpe diem è una di quelle stronzate che la gente si ripete per sballarsi di sabato sera o vivere una vita inconcludente. Ho percorso strade sbagliate, strade che mi hanno portato lontano. Più o meno come tutti. Alla fine sono dovuto tornare indietro. Ho spento le luci delle strade illuminate, ho aspettato l’alba. Mi sono rimesso in marcia. Come tanti altri.

Forse dovremmo vederci una volta, da soli. Come amanti, come conoscenti, non certo come amici. Se fossimo amici non potremmo andare oltre, cercare qualcosa di più, oppure tornare indietro, fare quel famigerato passo indietro che ci riporterebbe al punto di partenza.
“Sai, non vorrei rovinare il nostro rapporto”
“Non vorrei che le cose tra di noi cambiassero”.
Restiamo in bilico, parliamo delle novità, creiamoci una via di fuga, solo per noi due, parliamo della decadenza culturale attuale, parliamo male di quelli che ci stanno attorno e ci fissano quando litighiamo per la pessima musica che ascolti. Facciamo finta di incontrarci per caso, quando in realtà sappiamo entrambi cosa farà l’altro ogni giorno, ogni settimana. Fingiamoci sconosciuti se vedranno che ci sorridiamo in faccia, fingiamoci amanti quando resteremo soli.

Alla fine mi hai convinto a continuare a scrivere, anche a scrivere di te.

I

ottobre 10, 2010 § Lascia un commento

I troppi pensieri si coagulano nel mio cervello e non si riescono a fermare, le gambe non reggono il passo e mi ritrovo senza fiato, senza tempo, a scrivere fiumi di parole per cercare di non dimenticare nulla e di rendere giustizia a ogni scheggia di vita passata. Ancora sto correndo tra i vigneti di Bordeaux, giocare senza paura di perdersi, col sole che fa appassire le foglie e ti lascia da sola a splendere per ciò che non sei mai stata davvero. E ti guardo mentre cerchi di nasconderti nelle vie della città stanca per poi ritrovarti tra le lenzuola, mentre sogni chissà cosa per fuggire da me.

Provo a correrti dietro. Riesco a ritrovarti ma non sei la stessa.
Se sottovoce tu facessi rumore, sarebbe solo ciò che si potrebbe sentire nel silenzio di una tempesta, se splendendo tu volessi nasconderti, potresti solo farlo dietro mille specchi. Insicuro, ti aspetto nelle nebbie della notte più luminosa.

Bello.

Si davvero, sarebbe un inizio di romanzo davvero spettacolare. Poi basterebbe aggiungere un amore impossibile, di quelli che vanno di moda ora e potrei pure diventare famoso. Basterebbe scrivere frasi ad effetto, frasi fatte, o fatte di nulla, accostate per pathos e assonanza, unite per generare intensità. Frasette messe in fila per funzionare come un fulmine. Il funzionamento di un fulmine è elementare: una luce, l’attesa di qualche attimo, il boato e poi più nulla. Nulla che resti a testimoniare quell’intensità di un istante. Ma non è di questo che dobbiamo parlare.

Noi tutti abbiamo un problema. E il nostro è un grosso problema, rendiamocene conto, cazzo. Siamo i figli illegittimi degli anni ’80. Siamo una generazione di mezzo, bastarda. Siamo cresciuti avendo nella testa i retaggi dell’immaginario collettivo degli anni ’80 ma non li abbiamo vissuti realmente, perchè siamo arrivati tardi. Ma allo stesso tempo siamo arrivati troppo presto per far parte della generazione 2.0, figlia legittima di tecnologia, oltranzismo e velocità. Siamo persone che hanno voglia di urlare ma non sappiamo assolutamente cosa dire. Forse perchè non abbiamo più nulla da dire. Forse. Come un pittore con in mano un set completo di pennelli, il colore pronto in tubetto e la tela appena montata sul cavalletto. Come un musicista col suo strumento accordato dentro uno studio di registrazione. Abbiamo tutto ciò che serva a esprimerci, conosciamo a memoria la teoria ma non sappiamo cosa farcene. Siamo impotenti.

Neanche la droga può più essere una scusa. O una via di fuga. Ne hanno già abusato fin troppi scrittori e registi, ormai è più facile scriverne piuttosto che farne uso. Siamo drogati di opportunità e possibilità, ma non sappiamo come sfruttarle. Forse non ne siamo più capaci. Forse. Questo perchè ci siamo costruiti un nostro nuovo sogno americano, fatto di aperitivi, mostre e impegno. Abbiamo smontato, frammento per frammento, l’idea di autodeterminazione per sostituirla con quella di autocelebrazione, senza fermarci a riflettere, a capire che la celebrazione, senza qualcosa da celebrare, non ha ragion d’essere. Creiamo, inventiamo, scriviamo, fotografiamo, dipingiamo, componiamo. Facciamo. Ma non riusciamo ad andare oltre l’atto in sè, non riusciamo a dargli un valore, un significato, una motivazione. Prima creiamo, poi cerchiamo di infondergli un’idea per giustificare la creazione in sè.

Ma non dobbiamo rattristarci, non è colpa nostra. E’ colpa delle avanguardie storiche, è colpa di Marinetti e dei suoi amichetti. Ci hanno insegnato che uno scarabocchio su di uno straccio trovato per strada potesse essere arte, ci hanno insegnato che un pisciatoio potesse essere considerato soggetto artistico con una dignità tutta sua. E allora ecco un esercito di membri eretti a macchiare tele di colori seminali, spontanea e virile espressione di sè. Ecco allora un esercito di reflex che digrignano gli obiettivi, pronte a spolpare modelli improvvisati in pose innaturali. Il nostro problema è che ci sentiamo già grandi, senza esserlo in realtà. Senza aver poi fatto molto, in realtà. Ci sentiamo già arrivati, ma abbiamo appena iniziato il percorso e nemmeno ci rendiamo conto che rischiamo di buttare nel cesso la nostra cultura, ostentando un’irreale propensione artistica che appartiene a pochi ma che è bramata da fin troppi. Forse.